L’Anoressia Nervosa è una patologia psichiatrica che colpisce prevalentemente ragazze adolescenti le quali, dominate da una costante paura di ingrassare, mettono in atto condotte patologiche quali dieta restrittiva e intensa attività fisica, col fine ultimo di perdere peso. Questa combinazione determina una grave malnutrizione e genera uno squilibrio psicofisico multiorgano, che coinvolge anche il sistema nervoso centrale. Ne risulta un’alterazione dei processi motivazionali che favorisce il mantenimento delle condotte patologiche, con un conseguente deterioramento delle funzioni cognitive superiori.
In questo scenario, la compromissione dell’interazione fisiologica fra organi periferici e cervello potrebbe contribuire a rendere le pazienti incapaci di uscire dal circolo vizioso di un apparente benessere, rendendo i trattamenti inefficaci. Nonostante l’anoressia mostri il più elevato tasso di mortalità e ricaduta tra le diverse patologie psichiatriche, risulta ad oggi una condizione negletta, infatti le risorse impiegate per la ricerca risultano insufficienti e di conseguenza i fattori neurobiologici che ne causano l’insorgenza sono ancora in gran parte sconosciuti.
Il progetto si propone di studiare il ruolo di Clusterin nella patofisiologia dell’anoressia nervosa, una proteina di particolare interesse in quanto viene rilasciata dal fegato in seguito all’esercizio fisico ed è coinvolta nella regolazione dei meccanismi cerebrali deputati all’assunzione di cibo, dei processi cognitivi ed infiammatori e del metabolismo. L’obiettivo è quello di approfondire il ruolo di Clusterin nelle diverse fasi della patologia e caratterizzarne i meccanismi d’azione, con l’intento di sviluppare trattamenti farmacologici mirati, volti a migliorare o ripristinare i comportamenti maladattativi che caratterizzano la malattia.
Il progetto fotografico si concentra sulla figura della ricercatrice – attraverso una serie di ritratti spontanei e fotografie ambientali – e sul luogo in cui questa indagine silenziosa prende forma.
L’obiettivo non è solo documentare, ma evocare: creare un’atmosfera ambigua, quasi surreale, che rispecchi la natura della patologia stessa — difficile da afferrare, talvolta invisibile, ma profondamente presente. L’utilizzo di elementi estetici disturbanti o irreali, come il flash diretto e un filtro, serve a enfatizzare questa distanza tra ciò che si vede e ciò che si percepisce.
Seguendo quasi ossessivamente la ricercatrice nei suoi gesti quotidiani, il lavoro diventa anche una riflessione sul confine tra osservazione e invasione, tra corpo e mente, tra interno ed esterno. La fotografia si fa strumento di tensione, capace di restituire quella discrepanza tra la normalità apparente e il disagio profondo che caratterizza i disturbi alimentari.
Il progetto mira a stimolare una riflessione sul modo in cui guardiamo la patologia, sul linguaggio visivo della scienza, e su tutto ciò che — pur essendo reale — spesso resta sotto la superficie.
